È spiazzante il modo in cui a volte la musica riesca a combinare universi distanti in un’unità coerente ed affascinante, come sappia veicolare all’interno di strutture complesse messaggi profondi scaturenti da forme poco elaborate. Un esempio valido di tale possibilità è offerto dal nuovo lavoro di Timothée Quost , compositore/trombettista francese incline all’improvvisazione e all’ibridazione di lessici differenti, autore di un interessante intreccio di documentazione sonora e scrittura strumentale.
L’intento da cui l’album prende le mosse è quello di dare spazio alle testimonianze di un numero di anziane residenti in una casa di riposo – intervistate dallo stesso musicista – incastonandole in una serie di partiture composte nel corso di un quinquennio e ora appositamente registrate con l’ausilio di un vero e proprio ensemble. Piccole perle di saggezza estratte da frasi semplici sfuggono così all’oblio spinte da cinque brani in cui avanguardia di inizio novecento e retaggi free jazz – emergenti soprattutto da alcuni passaggi dei fiati -si compenetrano generando itinerari accidentati e sensorialmente vividi. Musica concreta, rumorismo e ricerca timbrica sono gli elementi base di paesaggi enigmatici – permeati da echi scelsiani e ligetiani – costruiti con perizia e messi a contrasto con una miscela scarna di parole ed echi ambientali. Un ascolto certamente ostico ma ricco di suggestione che merita di essere approfondito.